NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA NAPOLI INTERNO GIORNO

16.07.2012 19:04

 

di Anna Maria Siena Chianese

E’ nel cortile del Palazzo di Diomede Carafa, conte di Maddaloni, uno degli aristocratici napoletani passato alla storia per i suoi meriti politici e culturali, che nasce lo spettacolo Napoli, interno giorno per inoltrarsi poi tra vicoli e slarghi del ventre antico di Napoli ad assumere via via diverse ed intriganti forme e scopi.

Nel bel cortile che il suo fondatore ornò di statue e colonne, giardini pensili e giochi d’acqua, una testa di cavallo in terracotta sta da secoli sul suo piedistallo, copia dell’originale in bronzo che si dice donata al proprietario da Lorenzo il Magnifico nel 1471 o risalente addirittura a Virgilio che l’avrebbe costruita, naturalmente completa del resto del corpo, per esorcizzare i cavalli da tutti i loro mali. Fatto sta che il palazzo numero 121 di via San Biagio dei Librai viene distinto dagli altri palazzi Carafa della città per via della Capa di Cavallo che prima in bronzo, poi in terracotta, da secoli ne custodisce la storia. Nel cortile si apre oggi uno spazio che fa da scena, per l’occasione, alla performance esemplare di un medico della mutua che in una telefonata ad una paziente, in un concitato scambio d’intrighi con la segretaria e in un tentativo di seduzione andato a vuoto, sciorina la sua litania di peccati non veniali dinanzi al pubblico che non se ne meraviglia poi tanto, perché già ne è al corrente per esperienza propria e altrui.

L’impunito medico Marino, (il convincente Emilio Massa), nella insincera difesa di una sua verità, tenta di coinvolgere nelle sue meschine trame l’integerrimo collega-sostituto Spedalieri, (un eccezionale Roberto Cardone). Eccoci a seguirlo nelle visite a domicilio la prima delle quali, nello stesso palazzo Carafa, viene vanificata dall’essere il malato improvvisamente dipartito per altri lidi senza l’aiuto del medico.

La scena surreale che segue è il gioco dello scambio di identità tra il presunto oggetto della disperazione della padrona di casa, il padre defunto, e l’effettivo oggetto di tanta disperazione, il figlio degenere che ha scelto di dedicarsi al neomelodico con la protezione del nonno invece che al jazz, venerato dalla madre, che si esibisce in un Summertime dove i diversi pianti e rimpianti si convertono in un liberatorio inno d’amore alla sua musica.

Tutti di nuovo in strada, lungo vico Purgatorio ad Arco sfiorando il piccolo Vico Storto omonimo, così detto perchè è l’unico che si incurva nella serie dei vicoli paralleli dell’impianto antico. Nel bel cortile circolare ornato di logge ad arco, è agli arresti domiciliari la bella detenuta che il giovane poliziotto controlla anche di notte nella speranza reciproca di un futuro di riscatto e d’amore. Per strada un intraprendente venditore di calzini interpretato da uno straordinario, giovane attore che all’inizio prendiamo per autentico magliaro, ci blocca per tentare il suo solito doppio inganno, il primo al pubblico, il secondo a se stesso: come infilare una dopo l’altra tutte quelle bugie senza correre il rischio di cedere, almeno una volta, alla verità?

Infine l’ultima visita, in una casa di via Atri: una disperata badante polacca lancia invettive urlanti contro indeterminati bersagli mentre la padrona di casa invita gli sconcertati astanti, noi spettatori e i due medici, a prender posto intorno ad una tavola apparecchiata dove in malo modo la urlante cameriera sbatte dinanzi ad ognuno un piatto di pasta al ragù, giusto in tempo per partorire, assistita dal medico-sostituto, il figlio del coriaceo Marino che mangia, sia pure imprecando sottovoce, il suo fragrante ragù.

Questa passeggiata nella regio nilensis potrebbe far da spunto a pagine e pagine di un sia pur superficiale commento. E’ comunque d’obbligo coglierne lo spunto, quasi la provocazione perché provocatorie sono, e sono state, molte delle scelte del Teatro Festival cadute su luoghi quasi sconosciuti della città e che meritano, in risposta, qualche commento che ci sembra rientri di dovere nel commento stesso dello spettacolo.

Tornando alla prima visita domiciliare a palazzo Carafa, l’assetto della casa del paziente morto è la testimonianza concentratissima di un passato fatto di accoglienti case dei nonni con i loro centrini ricamati sotto vassoi fioriti, su mensole di lucide piattaie, dietro le porte a vetri di vecchie librerie. Salendo per vico Purgatorio ad Arco rasentiamo la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, ornata di ossa e di teschi a memento della fuggevolezza della vita. Sorta dalla pietas di un gruppo di gentiluomini che, agli inizi del Seicento, decisero di raccogliere questuando il danaro per le messe alle anime e per l’assistenza agli ammalati, essa è quasi coeva al Pio Monte della Misericordia, anch’esso voluto dai nobili per praticare le opere di misericordia sintetizzate nella splendida tela del Caravaggio, oggi sull’altare maggiore del Monte in via Tribunali, detta allora via del Sole e della Luna per i templi dedicati ad Apollo e a Diana che vi sorgevano… E’ facile perdersi nelle memorie perdute di una città perduta, ma torniamo al nostro Interno Giorno e alle piccole avvisaglie di resa dell’ippocratico medico-sostituto.

Nel basso a via Atri, la tazza di caffé finalmente accettata è segno di un possibile dialogo tra il suo rigoroso aplomb morale e quelle irragionevoli ragioni che possono ridar senso e fiato al futuro, e che solo un rigore cieco può rifiutare drasticamente di riconoscere.

La definitiva accettazione che, tra il bianco e il nero, una infinita serie di nuance offre significati e spessore a molte delle sfaccettatura della vita avviene da parte di Spedalieri dinanzi al piatto di ragù: dopo aver fatto nascere il bambino, frutto della multiforme cattiveria del dottor Marino, l’integerrimo medico si arrende ad una realtà della quale si rifiuta di divenire complice, ma non di cogliere quanto di positivo può presentare e che qui si concentra in una nascita, rinnovellata speranza di una qualche piccola, ancora possibile felicità. La padrona di casa è la brava Anna Troise; la cuoca, Mela Flauto, svolge il suo ruolo alla grande: del suo ragù neanche Eduardo avrebbe potuto lamentarsi. Arioso viatico per il defunto, il bello ed elegante Sergio Baino, il Summertime di Diana Di Paolo; bravo il poliziotto-regista Marco Luciano, bravi gli attori, anche se è difficile nominarli tutti, che hanno recitato a stretto contatto col pubblico e, pur nel faticoso itinerario per strade-scene e case private-interni, sono riusciti a conciliare fantasia ed estro con l’inappuntabile coerenza professionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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